PUBBLICO IMPIEGO: L’ENNESIMO RISCHIO DI “NON RIFORMA”

Tratto da ‘’Una nuova politica economica per il benessere del Paese’’ Fonte CISAL

Attraverso l’analisi dei modelli di management della Pubblica Amministrazione degli ultimi 30 anni è facile constatare come spesso ci sia stato un appiattimento sulla dimensione dell’efficienza, trascurando quello dell’efficacia sociale. Ciò si è tradotto puntualmente in perdita della qualità dei servizi, peggioramento del benessere collettivo e crisi della sicurezza sociale. La superficialità dell’approccio riformista dei Governi che si sono succeduti nel tempo ha causato finora non già l’abrogazione dell’inutile, cioè della miriade di organismi, di norme e di sovrastrutture di chiara marca politico/clientelare, ma la crescente mortificazione delle risorse umane, non solo utili ma assolutamente indispensabili per il corretto esercizio delle funzioni di servizio. Non fa eccezione la Legge 144/2014, impropriamente definita “Riforma” dal Ministro Madia.Tale provvedimento non solo è stato immaginato senza il supporto tecnico dei sindacati di categoria, ma non rappresenta alcun passo avanti né verso la spending review, né verso la razionalizzazione della macchina pubblica.

La verità, ad avviso della CISAL, è che una vera riforma dell’intero settore pubblico, dovrebbe essere preceduta da un ”mea culpa” collettivo da parte della politica, per aver pesantemente interferito nella gestione della cosa pubblica a soli fini clientelari ed elettorali.

Sorge il dubbio, invece, che tutte le riforme, compresa l’attuale, siano servite e servano esclusivamente al Ministro di turno per dar lustro alla propria immagine. E infatti, mai che il riformatore successivo abbia spiegato ieri e spieghi oggi, il perché la riforma precedente non abbia funzionato, quali le cause e, soprattutto, quali le responsabilità e quali i responsabili.

Mai una motivazione, mai un’analisi critica, mai una verità, insomma.

Lo “Stato-azienda” auspicato dall’ormai famoso Rapporto Giannini (siamo negli anni ottanta), nonostante la copiosa e contraddittoria legislazione prodotta nel frattempo, resta purtroppo una chimera.

È mancata e continua a mancare la volontà (politica? sindacale? culturale?) di dare ad ogni tentativo di riforma la “finalizzazione strategica”, semplicemente perché mancano le strategie.

E infatti si è iniziato e si continua ad operare con l’assurda politica dei tagli lineari, peraltro adottata senza alcuna valutazione di merito sulle specifiche realtà, nell’ errato presupposto che esista una sola pubblica amministrazione, dimostrando così, se ancora ce ne fosse bisogno, che il legislatore non è nemmeno in grado di (o ancora peggio, consapevolmente non vuole) discernere tra le migliaia e migliaia di pubbliche amministrazioni e quindi valutare con cognizione di causa dove, come e perché intervenire.

È opinione della CISAL, invece, che un pubblico impiego gestito con criteri improntati al massimo di efficienza, di efficacia e di economicità, in grado di assicurare ai cittadini e alle imprese servizi puntuali e trasparenti, presupporrebbe attribuzioni di incarichi strettamente collegati a obiettivi chiari, misurabili e raggiungibili con piena assunzione di responsabilità a tutti i livelli decisionali e operativi.

Stupisce, quindi, che la principale preoccupazione del legislatore sia stata ancora una volta quella di confermare per il sesto anno consecutivo il blocco delle retribuzioni e dei contratti.

Addirittura, secondo la Legge n. 122/2010, lo stipendio di dipendenti e dirigenti pubblici, compreso il trattamento accessorio, non può in nessun caso superare la retribuzione percepita nel 2010.

Come se non bastasse, è stato anche disposto il rinvio del pagamento dell’indennità di vacatio contrattuale fino al 2018.

Anche la tanto ostentata mobilità forzata entro i 50 chilometri è un provvedimento “vetrina” che fa presa su chi non conosce la PA. Chi conosce la pubblica amministrazione sa che sarà un’azione di difficile attuazione. Infatti, contestualmente a questo provvedimento avrebbe dovuto essere presentata una tabella di equiparazione.

Pure rispetto al provvedimento della “Buona Scuola”, come in tutta la Legge di Stabilità 2015, sebbene le intenzioni espresse siano sufficientemente positive, le principali riserve emergono quando dal generale si passa agli aspetti specifici. La Legge di Stabilità promuove il Progetto stanziando 500 milioni per la creazione di un Fondo dedicato che finanzierà l’assunzione, a partire dal 2015, di 148.100 docenti precari.

I 500 milioni coprono il pagamento degli stipendi dei docenti stabilizzati per gli ultimi 4 mesi del 2015. Dal 2016 il costo del provvedimento salirà a 3 miliardi e si stabilizzerà a regime a 4,1 miliardi.

L’avvio a soluzione dell’annosa ed iniqua precarietà dei docenti della scuola è, certamente, una misura apprezzabile, ma il quadro complessivo resta profondamente negativo. Il taglio di risorse per 600 milioni di euro che la manovra scarica sul MIUR ne rappresenta l’ulteriore conferma.

Per esempio, tutto l’impianto del documento è fortemente centralistico e l’autonomia delle scuole – pur espli citamente richiamata in uno dei capitoli – è in realtà sistematicamente assorbita da una regolazione tutta affidata a scelte governative. A cominciare dall’assunzione dei 150.000 docenti e dalla gestione dei futuri concorsi.

Rispetto alla cosiddetta “carriera”, quella che ci viene presentata, in realtà, è una diversa progressione economica, ma non una carriera, che presupporrebbe dei livelli e delle distinzioni di funzioni. I docenti continuano invece a essere visti come appartenenti a un profilo unico, che si differenzia solo per le funzioni svolte pro tempore. In materia di progressione economica, colpisce il livello di dettaglio con cui nel documento vengono definiti aspetti che il quadro normativo vigente attribuisce al contratto: la periodicità degli “scatti di competenza” (tre anni), la loro misura (60 euro “netti”), la platea dei beneficiari (il 66%).

Tutto ciò lascia dedurre che la contrattazione non esisterà più o che sarà ridotta ad aspetti marginali del rapporto di lavoro.

Quello che emerge è che il desiderio di un cambiamento a ogni costo sta facendo perdere di vista che alcune soluzioni esistono e sono state sperimentate da tempo.

Secondo la CISAL, è necessario introdurre una vera cultura manageriale in cui le valutazioni delle performance e della qualità possano e debbano caratterizzare la progressione di carriera, ferma restando una pur necessaria progressione economica da collegare all’anzianità senza demerito.