Varie sentenze del Consiglio di Stato giugno 2005 per i Dipendenti P.A.

SENTENZE CONSIGLIO DI STATO 
- GIUGNO 2005
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DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE


PROMOZIONE PER MERITO COMPARATIVO

In materia di promozione per merito comparativo alla qualifica superiore di un pubblico dipendente, la valutazione della voce attitudinale ha carattere ampiamente discrezionale, coinvolgendo apprezzamenti di merito relativi alle esigenze di servizio dell’amministrazione, sicchè tale valutazione, qualora non sia manifestamente illogica rispetto ai precedenti di carriera dell’interessato, non è soggetta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo. Fermo restando tale principio generale e quello di autonomia delle singole graduatorie, essi cedono di fronte all’assoluta identità delle fattispecie concorsuali ed alla mancata ostensione di elementi nuovi capaci di ribaltare la precedente classifica. La tendenza di carriera giuoca un ruolo anche nell’ambito della c.d. continuità logica delle valutazioni, con l’avvertenza però che il c.d. scavalcamento illegittimo si può ravvisare in senso proprio solo quando in una precedente graduatoria riferita allo stesso grado o qualifica, i candidati in comparazione si siano collocati in posizione invertita, senza che nulla sia variato nel loro rendimento (documentabile) ed attività professionale. (Sez. IV, 5 aprile 2005, n. 1516; Sez. IV, 7 giugno 2004, n. 4584; Sez. I, 10 luglio 2003, n. 5012002)

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3552

INSEGNANTI UNIVERSITARI ''CONCORSO''

 

Allorché una selezione è assimilabile ad un concorso universitario essa si connota, stante il particolare livello culturale richiesto ai candidati, per la tipicità della valutazione, che deve rappresentare un "giudizio di valore" complessivo, fondato sui titoli e sul colloquio. I principii fondamentali, in punto di legittimità dell'operato delle Commissioni esaminatrici sono : a) l'esistenza di poteri discrezionali, da parte della Commissione, rapportati al tipo concorsuale, caratterizzato da un'elevatissima specializzazione (Sez. VI, 27 aprile 1999, n. 534), che comunque non possono trasmodare in una opinabilità assoluta, illogica e poco trasparente; b) la non sindacabilità dei tempi di valutazione dei candidati (calcolo sempre di tipo presuntivo e/o statistico, ma mai effettivo per ciascun singolo concorrente), anche in considerazione del fatto che vi è tutta un'attività di preparazione, tesa a rendere spedito il giudizio d'esame (Sez. VI, VI, 17 luglio 2001, n. 3957); c) la non rilevanza delle prescrizioni formali, stabilite per la generalità dei concorsi pubblici (Sez. VI, n. 534/1999, cit. e 4 aprile 2000, n. 1940), da intendersi nel senso del valore "sostanziale" della procedura "de qua"; d) la valutazione della Commissione, infine, può essere unitaria (e non necessariamente analitica: Sez. VI, 26 maggio 1999, n. 688) per le pubblicazioni esibite, il giudizio sul cui valore scientifico attiene al merito dell'azione amministrativa, sindacabile sul piano della legittimità solo per evidenti contraddizioni logiche (sintomatiche di uno sviamento) e per violazioni procedurali (Sez. VI, 23 settembre 1998, n. 1283 e 15 luglio 1998, n. 1074).

Nelle selezioni assimilabili ad un concorso universitario il giudizio della Commissione è essenzialmente un "giudizio qualitativo" sulle esperienze e sulla preparazione "scientifica" dei candidati (Sez. VI, 26 febbraio 2002, n. 1166) ed attiene alla sfera della discrezionalità tecnica, censurabile unicamente sul piano della legittimità, per evidente superficialità, incompletezza, incongruenza, manifesta disparità, emergente dalla stessa documentazione, tale da configurare un evidente eccesso di potere, senza con ciò entrare nel merito della valutazione (Sez. VI, 3 gennaio 2000, n. 6). La presenza di un elevato tasso di discrezionalità, nel senso della ineliminabilità di una variabilità di apprezzamenti nel formulare i giudizii che richiedono conoscenze ad elevato livello di complesse discipline cognitive, esclude che si possa applicare l'intero "corpus" delle regole tipiche dei concorsi per l'assunzione nel pubblico impiego e, in genere, delle procedure valutative complesse a carattere comparativo.

In quelle procedure selettive, in cui sono coinvolti candidati dotati di elevate qualità scientifiche, alle commissioni giudicatrici spettano indubbiamente ampii poteri di valutazione tecnica, sindacabili solo in presenza non di minimi scostamenti, ma di abnormi incongruenze rispetto non solo alle posizioni dei singoli candidati, ma anche al tipo di reclutamento che si intende realizzare.

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3546

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE ''PROCEDIMENTO DISCIPLINARE''

 

La giurisprudenza individua, ai sensi dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, nella data della "conoscenza", da parte della p.a., del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna il dies a quo far decorrere il términe perentorio per l’instaurazione del procedimento disciplinare, términe che si deve intendere di portata generale, estesa cioè a tutto il settore del pubblico impiego e derogatòria di ogni diverso e minore términe stabilito da precedenti norme, allorquando della procedura sia possibile ipotizzare l’ésito della destituzione o di misura ad essa comunque equivalente (Sez. IV, 7 ottobre 1998, n. 1298 e 9 agosto 1997, n. 785).

I fatti accertati in sede di un procedimento penale conclusosi con una sentenza di condanna non assumono automatica rilevanza in altri procedimenti (giuscontabili, disciplinari, ecc.), nel corso dei quali la p.a. od il Giudice hanno l’obbligo di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti posti a base della pronuncia penale. Se è vero, tuttavia, che, in sede di giudizio disciplinare instaurato a carico del pubblico dipendente, non è sufficiente, per affermarne la responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunciata una sentenza penale di condanna, dovendo l'organo disciplinare procedere ad un'autonoma valutazione della rilevanza dei fatti, è altrettanto vero che a tale pronuncia penale può farsi tuttavia riferimento per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del procedimento penale, che o non siano contestati o che, in base a un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiono fondatamente ascrivibili all'interessato.

Un provvedimento amministrativo può considerarsi correttamente motivato quando il destinatario possa risalire alle ragioni che lo hanno determinato, pur prescindendo dalle valutazioni compiute dall'Amministrazione (Sez. V, 15 novembre 1991, n. 1307) e quando, inoltre, risultino dallo stesso la qualificazione giuridica data al fatto, il carattere pregiudizievole per gli interessi del l'Amministrazione del comportamento tenuto dal soggetto e le ragioni che hanno indotto la stessa ad adottare il provvedimento (Sez. IV, 20 febbraio 1987, n. 67; Sez. V, 20 febbraio 1987, n. 135; Sez. IV, 3 ottobre 1990, n. 731 e 15 novembre 1991, n. 919).

Il principio di autonomia, che permea l' accertamento e la valutazione, in sede disciplinare, dei fatti accertati in sede penale, non preclude all' Amministrazione di utilizzare le risultanze acquisite dal giudice penale quali elementi fattuali della fattispecie comportamentale se ed in quanto idonei a supportare un giudizio di responsabilità dell' inquisito a fini disciplinari e che, peraltro, nello svolgimento di tale attività istruttoria, l'Autorità procedente gode di un ampio margine di apprezzamento discrezionale, che non può essere sindacato dal giudice amministrativo, se non sotto il profilo del travisamento dei fatti assunti a presupposto della determinazione adottata, che nella fattispecie all’esame pare assolutamente insussistente.

Il criterio di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione comminata va considerato come null’altro che una proiezione del generale principio di ragionevolezza, che deve improntare in ogni materia l'azione dell'amministrazione e che costituisce un limite invalicabile per la libertà di apprezzamento di cui la stessa amministrazione dispone; al riguardo, il Giudice amministrativo non può valutare autonomamente il fatto addebitato all'impiegato quale illecito disciplinare; ciò in quanto la valutazione della punibilità di un comportamento rientra nella sfera di apprezzamento discrezionale dell'Amministrazione e non può essere sindacata se non per evidenti ragioni di contraddittorietà e di travisamento dei fatti (Sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7964).

La determinazione relativa alla entità della sanzione disciplinare (Sez. IV, 28 gennaio 2002, n. 449) è espressione di una tipica valutazione discrezionale della pubblica amministrazione datrice di lavoro, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo (tranne che nei casi in cui essa appaia manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito) e il giudice non può sostituire la propria valutazione a quella della amministrazione, ma può soltanto verificare che l'atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti manifestamente gravi e tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro (Sez. IV, 5 ottobre 2004, n. 6490).

Non è illogico, né sostanzialmente ingiusto, l'apprezzamento dell'amministrazione, che, sulla base di fatti risultanti da processo penale conclusosi con sentenza di condanna in relazione a reati di particolare gravità, sottoponendo tali fatti ad autonoma valutazione, adotti il pur grave provvedimento della perdita del grado per rimozione, ritenendo incompatibile tale comportamento con la prosecuzione del servizio.

La distinzione tra valutazione penale e disciplinare dello stesso fatto illecito, voluta dallo stesso legislatore, comporta che taluni aspetti rilevanti penalmente possano non esserlo disciplinarmente e viceversa, sì da non potersi nemmeno astrattamente ipotizzare contraddittorietà tra fattispecie del tutto disomogenee (Sez. II, 14 gennaio 1995, n. 346/94; Sez. IV, 13 dicembre 1994, n. 1875).

La perdita del grado per rimozione, di cui al primo comma, n. 6, dell’art. 60 della legge n. 599/54, è prevista per reprimere tutti quei comportamenti del militare, che arrechino pregiudizio alla dignità delle funzioni esercitate e possano fare temere che queste ultime non siano espletate correttamente, tali essendo anche quelli che, seppure estranei al servizio, si dimostrino in qualche modo lesivi del prestigio, del decoro e dell’immagine della pubblica amministrazione (Sez. V, 13 gennaio 1999, n. 24), sì da comportare per tal via comunque violazione degli obblighi di correttezza e lealtà nei confronti della stessa, assunti con il giuramento.

La competenza ad adottare il provvedimento disciplinare della rimozione per perdita del grado (indubbiamente già del Ministro) deve ritenersi attribuita al Dirigente in base all’art. 3 del D. Lgs. n. 29/93 (v. oggi l’art. 4 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165), che demanda, in via generale, ai dirigenti pubblici l’emanazione di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, oltre che in base all’art. 16 dello stesso D. Lgs. n. 29 (v., oggi, l’art. 16 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165), che attribuisce ai dirigenti di ufficii dirigenziali generali ogni attività di gestione del personale; tra le "misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro" rientra anche qualunque fattispecie, comunque denominata, di risoluzione del rapporto di lavoro del dipendente pubblico per volontà dell’Amministrazione. Tale espressione è tale da abbracciare tutti i molteplici profili del rapporto di lavoro (privatizzato e non) dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, vale a dire l’intero insieme contrapposto degli obblighi del lavoratore e del datore di lavoro.

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3544

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE ''PROCEDIMENTO DISCIPLINARE''

 

Nel procedimento disciplinare nel confronti dei pubblici dipendenti (ivi compreso anche il personale militare), il giudizio si svolge con una larga discrezionalità da parte dell'Amministrazione in ordine al convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da irrogare, sicché, in sede di impugnativa del provvedimento disciplinare, il giudice amministrativo non può sostituirsi agli organi dell'Amministrazione nella valutazione dei fatti contestati all'inquisito e nel convincimento cui tali organi siano pervenuti, se non nei limiti in cui la valutazione contenga un travisamento dei fatti, ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente (Sez. VI, 10 maggio 1996, n. 670; Sez. V, 1 dicembre 1993, n. 1226 e 11 aprile, n. 539; Sez. IV, 16 gennaio 1990, n. 21; Sez I, 10 giugno 1992, n. 506); e quando alcuna palese irrazionalità risulti, il Giudice amministrativo non può entrare nel mérito della valutazione operata dall’Amministrazione.

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3526

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE '' HANDICAP''

 

L’art. 33, comma 5, L. 5 febbraio 1992, n. 104 – nel testo originario – stabiliva che il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, il quale assiste con continuità un parente entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede. Successivamente la L. 8 marzo 2000, n. 53, ha modificato il regime delle agevolazioni di cui si discute, eliminando il presupposto della convivenza prima richiesto (art. 19) ma postulando il carattere esclusivo dell’attività di assistenza (art. 20). Come chiarito dalla giurisprudenza – sia con riferimento al testo originario della legge (Sez. IV, 21 aprile 1997, n. 425) che a quello modificato (Sez. III, 26 novembre 2000, n. 1623) – la normativa richiamata si riferisce solo al lavoratore che già assista con continuità un familiare portatore di handicap, e non anche al dipendente che, non assistendo in atto con continuità un familiare, aspiri al trasferimento proprio al fine di poter instaurare il detto rapporto di assistenza continuativa. In sostanza, dal momento che il diritto vigente tutela le situazioni di assistenza già esistenti, la cui interruzione crei pregiudizio allo stato di fatto favorevole al portatore di handicap, ne consegue che le esigenze di assistenza successivamente determinatesi non sono ricomprese nella previsione legislativa. La esclusione di questa seconda ipotesi è stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale la quale con la sentenza 29 luglio 1996, n. 325, ha precisato che la norma si inserisce in un sistema che prevede anche altre forme di assistenza agli handicappati, al di fuori dell'ambito familiare, sicché con l'art. 33, quinto comma, il Legislatore ha ragionevolmente previsto, quale misura aggiuntiva, la salvaguardia dell'assistenza in atto nell'ambito familiare, senza prevedere anche, nell'esercizio della sua discrezionalità, la possibilità di trasferimenti del lavoratore dipendente finalizzati a instaurare un rapporto di assistenza, nell'ambito familiare, al portatore di handicap.

L’attività assistenziale in senso lato prestata dal militare temporaneamente trasferito resta irrilevante ai fini dell’attribuzione dei benefici previsti dall’art. 33, comma 5, in favore di quanti già prestano specifica e continuativa assistenza al congiunto portatore di handicap (Sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 565).

La Corte costituzionale ha evidenziato, pur riconoscendo il particolare valore della L, n. 104/1992 in quanto finalizzata a garantire diritti umani fondamentali, che l'istituto di cui all'art. 33, comma 5, della stessa legge, in tema di scelta della sede lavorativa più vicina al familiare handicappato assistito, non è l'unico idoneo a tutelare la condizione di bisogno del malato e che comunque la posizione giuridica di vantaggio ivi prevista non è illimitata, potendo essere fatta valere soltanto « ove possibile ». (Corte cost. 22 luglio 2002 n. 372). Ne consegue che la norma non configura in realtà un diritto soggettivo di precedenza al trasferimento del familiare lavoratore, bensì un semplice interesse legittimo a scegliere la propria sede di servizio ove possibile, con la conseguenza che l’Amministrazione può quindi non esaudire la relativa pretesa dandone adeguata motivazione. (Comm. spec., 19 gennaio 1998, n. 394). Sul piano operativo, pertanto, la pretesa del lavoratore che effettivamente assiste con continuità un parente handicappato alla scelta della sede di lavoro deve trovare accoglimento quando risulti compatibile con le specifiche esigenze funzionali dell'Amministrazione di appartenenza. In tal senso basta pensare – con particolare riferimento alle Forze Armate – alle situazioni di deficit organico in particolari reparti o alle necessità operative che impongono un obbligato utilizzo di personale in possesso di talune specializzazioni: a fronte di tali evenienze organizzative all’Amministrazione può ben chiedersi di tenere in debito conto i bisogni, personali e familiari, dei suoi dipendenti, ma non certo di subordinare ad essi la realizzazione dei propri compiti istituzionali, ai quali invece, nel bilanciamento, deve riconoscersi priorità assoluta, in quanto preordinati a quella cura di interessi pubblici che non tollera soluzione di continuità.

La dimostrazione che i parenti e affini dell' handicappato, pur se residenti nelle vicinanze, non siano disponibili ad occuparsi dell'assistenza al disabile deve essere resa dal dipendente che vuole ottenere il detto trasferimento non per mezzo di semplici dichiarazioni di carattere formale, attestanti impedimenti di tipo comune o stati d’animo di tipo soggettivo. L’indisponibilità, invece, va provata con la produzione di dati ed elementi di carattere oggettivo, oppure concernenti stati psico fisici connotati da particolare gravità, e quindi idonei ad attestare l'impossibilità assistenziale, e non la semplice indisponibilità degli altri familiari, sulla base di criteri di ragionevolezza tali da concretizzare un'effettiva esimente dal vincolo di assistenza familiare.

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3518

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE '' COLLEGIO ARBITRALE DI DISCIPLINA''

 

Secondo l’art.59, comma 7, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n.29, le sanzioni disciplinari inflitte ai pubblici impiegati possono essere impugnate dinanzi al collegio arbitrale di disciplina dell’amministrazione di appartenenza; nulla dice la legge circa i mezzi di impugnazione della decisione di detto organo collegiale. La pronuncia del medesimo collegio arbitrale non ha i requisiti per essere qualificata sentenza arbitrale, ma è in tutto assimilabile all’analogo istituto previsto dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (Statuto dei lavoratori) in tema di sanzioni disciplinari nei confronti di lavoratori subordinati privati (Sez. VI, 23 settembre 1997, n. 1374); infatti, anche contro le sanzioni disciplinari irrogate a lavoratori privati è ammissibile il ricorso ad un collegio di conciliazione e arbitrato. La riscontrata analogia tra i due istituti impone di qualificare la decisione del collegio arbitrale di disciplina come un atto di natura privatistica (posto che trova causa diretta nella volontà delle parti), in relazione al quale occorre individuare il giudice provvisto di competenza giurisdizionale, tenuto conto del suo riscontrato carattere negoziale. (Sez. VI, 25 luglio 2003, n. 4291; Sez. VI, 21 maggio 2001, n. 2807).

GIURISDIZIONE

RAPPORTO DI LAVORO DIPENDENTI PUBBLICI

 

Per le questioni relative al periodo di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche se si controverte dell’impugnazione di un lodo irrituale nonostante la sua indiscussa natura privatistica. Nell’ambito della giurisdizione esclusiva, sono ammesse le azioni di accertamento e di condanna (così come l’impugnazione di atti paritetici), a riprova dell’affermazione che si tratta di giurisdizione sul rapporto (non limitata, come tale, al mero annullamento di un provvedimento amministrativo) e che lo stesso legislatore ha riconosciuto (in via generale) la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, oltre che sui provvedimenti amministrativi, anche sui negozi giuridici tra privati e amministrazione, determinativi del contenuto di provvedimenti, o sostitutivi degli stessi (art.11, legge 7 agosto 1990, n. 241), con la conseguenza che le controversie aventi ad oggetto le decisioni del Collegio arbitrale di disciplina (che, quale lodo irrituale, ha natura di negozio giuridico fondato sulla volontà delle parti) va senz’altro ricondotta entro il perimetro della giurisdizione esclusiva amministrativa (Cass. Civ., SS.UU., 26 giugno 2002, n.9335).

APPELLO

ANNULLAMENTO CON RINVIO

 

L’erronea declinatoria di giurisdizione da parte del TAR adito, rientrando tra i difetti di procedura, determina l’annullamento con rinvio della controversia, per la cognizione nel merito, al primo giudice (Ad. Plen., 8 novembre 1996, n.23).

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3513

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO '' PROCEDIMENTO DISCIPLINARE''

 

Il provvedimento disciplinare attivato in seguito alla pronuncia di una sentenza di condanna ai sensi dell’art. 444 c.p.p. esula dall’ambito applicativo dell’art.9 l. n.19/90, atteso che il c.d. "patteggiamento" non esaurisce e non definisce l’accertamento della responsabilità dell’impiegato, ma, anzi, impone (di regola) all’amministrazione il compimento di autonome verifiche istruttorie, e resta soggetto alla disciplina generale contenuta nel d.P.R. n.3/57 e, in particolare, per quanto qui interessa, all’art.120 (Ad. Plen. 26 giugno 2000, n.15; Sez.V, 20 agosto 2001, n.4440).

Al termine infraprocedimentale di novanta giorni stabilito dall’art.120 d.P.R. n.3/57 dev’essere riconosciuto carattere perentorio e che la sua inosservanza determina (automaticamente e senza che possano rilevare, in senso contrario, le cause dell’inerzia) l’illegittimità del provvedimento applicativo della sanzione disciplinare (Sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2817).

200503512 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3512

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO ''PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Non è illegittimo il diniego di riammissione in servizio deliberato all’esito di una disamina della condizione dell’impiegato, sulla base della valutazione della gravità delle ipotesi accusatorie ed al fine di soddisfare la preminente esigenza di conservare l’efficacia del provvedimento di sospensione fino alla definizione delle indagini e del giudizio di primo grado, per acquisire elementi di giudizio maggiormente stabili e definitivi prima di consentire la ripresa dell’attività lavorativa ad un dipendente accusato di reati.

200503511 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3511

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO ''SOSPENSIONE CAUTELARE''

Una volta esclusa - per effetto del sopravvenuto decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 - la competenza dell’Organo di direzione politica dell’amministrazione in materia di sospensione cautelare, che era stata fatta salva dall’art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 748 del 1972, quest’ultima norma non può che essere coerentemente intesa nel senso che ogni competenza ivi "riservata" al Ministro doveva logicamente ricomprendersi nell’ambito delle generali attribuzioni assegnate in materia al dirigente con funzioni del "capo del personale".

Il pubblico dipendente che sia stato sospeso obbligatoriamente dal servizio per intervenuta restrizione della libertà personale, con provvedimento dell'autorità giudiziaria penale, una volta rimesso in libertà non ha un diritto soggettivo alla riammissione in servizio, ma solo un interesse legittimo cui si correla l'obbligo dell'amministrazione di provvedere, sulla base di una adeguata ponderazione delle circostanze, in ordine alla predetta richiesta di riammissione in servizio ovvero in ordine alla sospensione cautelare facoltativa (Sez. IV, 13 ottobre 2003, n. 6165).

Il provvedimento di sospensione dal servizio non costituisce un provvedimento di natura disciplinare, che richiede una più diffusa enunciazione delle ragioni poste a base del provvedimento stesso, trattandosi propriamente di una misura di natura cautelare che risulta sufficientemente motivata dalla obiettiva sussistenza di una situazione lesiva del prestigio dell'amministrazione.

Il principio di salvaguardia dell'interesse generale al regolare svolgimento del servizio reso dai pubblici uffici assume rilievo preminente e determinante al fine di giustificare la possibilità del sacrificio della posizione anche morale del dipendente, in un momento in cui - non essendo intervenuta alcuna sentenza, tanto meno definitiva - quest'ultimo non è comunque da considerare colpevole ai sensi dell'articolo 27, secondo comma, della Costituzione. Ciò posto, se tale principio di precauzione è operante ove sia formulata la richiesta di rinvio a giudizio (che postula soltanto, secondo l'articolo 408 del codice di procedura penale, che non sussistano i presupposti dell'infondatezza della notizia di reato), lo stesso principio deve ritenersi pienamente applicabile allorché siano intervenute misure restrittive della libertà personali, le quali richiedono la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" in base all'articolo 273 del codice di procedura penale e sono ordinate, su richiesta del pubblico ministero, da un organo giurisdizionale quale il giudice delle indagini preliminari, che tali "gravi indizi" sottopone a riesame (Sez. IV, 28 giugno 2004, n. 4574).

200503510 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3510

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO  ''SOSPENSIONE CAUTELARE''

La sospensione cautelare dal servizio non è un provvedimento di natura disciplinare, ma una misura cautelare, che risulta sufficientemente motivata dalla obiettiva sussistenza di una situazione lesiva del prestigio dell'Amministrazione.

L'articolo 27, comma 3, del C.C.N.L. del comparto del personale dipendente dai "Ministeri", non può essere inteso nel senso che la sospensione cautelare facoltativa, per prolungare la sospensione obbligatoria quando sia cessato lo stato di restrizione della libertà personale del dipendente, resti comunque subordinata alla formale richiesta di "rinvio a giudizio", da parte dell'Autorità giudiziaria. Il principio di salvaguardia dell'interesse generale al regolare svolgimento del servizio reso dai pubblici uffici assume rilievo preminente e determinante al fine di giustificare la possibilità del sacrificio della posizione anche morale del dipendente, in un momento in cui - non essendo intervenuta alcuna sentenza, tanto meno definitiva - quest'ultimo non è comunque da considerare colpevole ai sensi dell'articolo 27, secondo comma, della Costituzione. Ciò posto, se tale principio di precauzione è operante ove sia formulata la richiesta di rinvio a giudizio (che postula soltanto, secondo l'articolo 408 del codice di procedura penale, che non sussistano i presupposti dell'infondatezza della notizia di reato), lo stesso principio deve ritenersi pienamente applicabile allorché siano intervenute misure restrittive della libertà personali, le quali richiedono la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" in base all'articolo 273 del codice di procedura penale e sono ordinate, su richiesta del pubblico ministero, da un organo giurisdizionale quale il giudice delle indagini preliminari, che tali "gravi indizi" sottopone a riesame (Sez. IV, 28 giugno 2004, n. 4574). La formula letterale del citato articolo 27 deve essere intesa, pertanto, nel senso che il presupposto per l'adozione della misura cautelare facoltativa venga individuato nella sottoposizione dell’impiegato a "procedimento penale", come espressamente indicato in via generale dell'articolo 91 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. D'altronde lo stesso codice di procedura penale prevede, all'articolo 61, che alla persona sottoposta alle indagini preliminari si estende ogni disposizione relativa all'imputato, salvo che sia diversamente stabilito: ed in una fattispecie come quella in esame - in cui sono intervenute misure restrittive della libertà personale - appare evidente l'esigenza di applicazione degli stessi principi che valgono per i soggetti che abbiano assunto la qualità di imputato.

200503509 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3509

DIPENDENTI DELL’UNIVERSITA’' 'PASSAGGIO AD ALTRE AMMINISTRAZIONI''

In base al quarto comma dell’art.120 del d.P.R. n. 382 del 1980, il passaggio ad altre amministrazioni pubbliche del personale universitario è subordinato al "giudizio positivo" di apposita commissione costituita presso l'amministrazione interessata. Un simile "giudizio" implica una specifica valutazione che non è confinata al mero riscontro della astratta possibilità di far luogo al passaggio di ruolo, ma richiede un vero e proprio apprezzamento di merito della scelta amministrativa che deve essere operata non soltanto per far fronte a esigenze occupazionali nel settore universitario ma altresì, e più specificamente, in vista del soddisfacimento di un interesse alla copertura (eventualmente anche in soprannumero) dei posti organici dell’ente pubblico che ne possa trarre utilità e giovamento ai fini del perseguimento dei propri fini istituzionali. Trattandosi di un giudizio attinente anche alla convenienza e opportunità del trasferimento, deve ritenersi che le scelte operate dalla apposita commissione non possano essere sindacate se non per profili di palese irrazionalità o contraddittorietà.

200503508 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3508

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO ''SOSPENSIONE CAUTELARE''

La restitutio in integrum prevista dall'articolo 96 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, spetta per tutto il periodo di sospensione cautelare sofferto dal dipendente in eccedenza ad eventuali periodi di sospensione dalla qualifica, in quanto la misura cautelare per sua natura produce effetti interinali fino a quando non intervenga un provvedimento definitivo che risulti idoneo a regolare stabilmente il rapporto tra amministrazione e dipendente, ossia un provvedimento che si concretizzi nella eventuale sanzione adottata in esito al procedimento disciplinare (Ad. Plen., 16 giugno 1999, n. 15; Sez. VI, 3 luglio 2001, n. 3659). Pertanto, ove quest'ultimo procedimento si concluda con una sanzione che non comporti una sospensione del rapporto, ovvero non giunga a conclusione, non possono ravvisarsi motivi per negare la piena reintegrazione, nonostante la mancata prestazione del servizio. Né può assumere rilevanza, in tale prospettiva, che lo stato di detenzione in cui si sia trovato il dipendente abbia in concreto impedito la realizzazione del rapporto sinallagmatico intercorrente tra la prestazione lavorativa e il pagamento della retribuzione, atteso che il meccanismo della restitutio in integrum è specificamente preordinato allo scopo di assicurare la retribuzione proprio in mancanza della prestazione lavorativa, ove il procedimento penale si sia concluso con una sentenza assolutoria, ovvero la sospensione del rapporto lavorativo non abbia trovato adeguato supporto in un provvedimento disciplinare instaurato a seguito della definizione del procedimento penale.

200503507 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3507

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE ''CESSAZIONE DEL RAPPORTO''

La disciplina normativa applicabile in via generale ai dipendenti della pubblica amministrazione, ed in ispecie la norma dell'articolo 124 del T. U. n. 3 del 1957, non consente che venga riconosciuto effetto alle dimissioni prima della loro accettazione.

200503506 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3506

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO '' SOSPENSIONE CAUTELARE ''

Una volta esclusa - per effetto del sopravvenuto decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 - la competenza dell’Organo di direzione politica dell’amministrazione in materia di sospensione cautelare, che era stata fatta salva dall’art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 748 del 1972, quest’ultima norma non può che essere coerentemente intesa nel senso che ogni competenza ivi "riservata" al Ministro doveva logicamente ricomprendersi nell’ambito delle generali attribuzioni assegnate in materia al dirigente con funzioni del "capo del personale".

Il pubblico dipendente che sia stato sospeso obbligatoriamente dal servizio per intervenuta restrizione della libertà personale, con provvedimento dell'autorità giudiziaria penale, una volta rimesso in libertà non ha un diritto soggettivo alla riammissione in servizio, ma solo un interesse legittimo cui si correla l'obbligo dell'amministrazione di provvedere, sulla base di una adeguata ponderazione delle circostanze, in ordine alla predetta richiesta di riammissione in servizio ovvero in ordine alla sospensione cautelare facoltativa (Sez. IV, 13 ottobre 2003, n. 6165).

Il provvedimento di sospensione dal servizio non costituisce un provvedimento di natura disciplinare, che richiede una più diffusa enunciazione delle ragioni poste a base del provvedimento stesso, trattandosi propriamente di una misura di natura cautelare che risulta sufficientemente motivata dalla obiettiva sussistenza di una situazione lesiva del prestigio dell'amministrazione.

Il principio di salvaguardia dell'interesse generale al regolare svolgimento del servizio reso dai pubblici uffici assume rilievo preminente e determinante al fine di giustificare la possibilità del sacrificio della posizione anche morale del dipendente, in un momento in cui - non essendo intervenuta alcuna sentenza, tanto meno definitiva - quest'ultimo non è comunque da considerare colpevole ai sensi dell'articolo 27, secondo comma, della Costituzione. Ciò posto, se tale principio di precauzione è operante ove sia formulata la richiesta di rinvio a giudizio (che postula soltanto, secondo l'articolo 408 del codice di procedura penale, che non sussistano i presupposti dell'infondatezza della notizia di reato), lo stesso principio deve ritenersi pienamente applicabile allorché siano intervenute misure restrittive della libertà personali, le quali richiedono la sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza" in base all'articolo 273 del codice di procedura penale e sono ordinate, su richiesta del pubblico ministero, da un organo giurisdizionale quale il giudice delle indagini preliminari, che tali "gravi indizi" sottopone a riesame (Sez. IV, 28 giugno 2004, n. 4574).

200503505 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3505

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE '' PROCEDIMENTO DISCIPLINARE ''

La Commissione di disciplina può legittimamente tenere conto degli accertamenti compiuti in sede penale e non è sindacabile la valutazione degli elementi di prova e di giustificazione forniti dall'incolpato, essendo sufficiente che da tale valutazione risulti che essi sono stati esaminati, ancorché disattesi (Sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3619).

Se da un lato la sentenza penale resa ai sensi del citato articolo 444 c.p.p. esige una autonoma valutazione in sede disciplinare dei fatti ascritti al dipendente e, quindi, la stessa non può essere assunta a presupposto unico dell'applicazione del provvedimento sanzionatorio, dall'altro lato non può escludersi il ricorso agli atti del procedimento penale definito con "patteggiamento" per ritenere accertati fatti che siano stati espressamente ammessi o che risultino comunque addebitabili dall'incolpato.

200503504 Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3504

RICORSI AMMINISTRATIVI '' RICORSO GERARCHICO ''

In sede di ricorso giurisdizionale contro una decisione adottata a seguito di ricorso gerarchico, sono inammissibili i motivi che non siano stati proposti in sede gerarchica nei confronti dell’atto impugnato; ciò al fine di evitare la possibile elusione dei termini perentori entro i quali proporre ricorso giurisdizionale (Sez. IV, 10 giugno 2004, n. 3756; Sez. VI, 3 novembre 1999, n. 1704; Sez. VI, 4 marzo 1998, n. 230).

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3501

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO '' TRATTAMENTO ECONOMICO E INDENNITA’ ''

 

È stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, 3º comma, l. 23 dicembre 2000 n. 388, nella parte in cui dispone che l’art. 7, 1º comma, d.l. n. 384 del 1992 si interpreta nel senso che la proroga al 31 dicembre della disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla l. 29 marzo 1983 n. 93, relativi al triennio 1º gennaio 1988-31 dicembre 1990, non modifica la data del 31 dicembre 1990, già stabilita per la maturazione delle anzianità di servizio prescritte ai fini delle maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità, stabilendo altresì che è fatta salva l’esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della legge stessa, in riferimento agli art. 3, 24, 97, 101, 102, 103, 104, 108, 113 cost. (Corte cost. [ord.], 15 gennaio 2003, n. 10; Sez. IV, 28 marzo 2001, n. 1808).

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3497

DIPENDENTI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE  ''INQUADRAMENTO''

 

L’art. 1 della legge n. 207 del 1985, prevede che il personale dei ruoli sanitario, professionale, tecnico ed amministrativo di posizione funzionale iniziale di ciascun profilo professionale che, alla data del 30 giugno 1984, ricopriva in base alla normativa vigente, nella stessa posizione funzionale o, se già di ruolo, in altra posizione funzionale non ricompresa nel disposto dell’articolo 8 di cui alla presente legge, un posto di organico vacante nelle piante organiche provvisorie delle unità sanitarie locali, di cui all’articolo 1 del decreto-legge 26 novembre 1981, n. 678, convertito in legge, con modificazione, dalla legge 26 gennaio 1982, n. 12, oppure nelle piante organiche definitive delle unità sanitarie locali, per incarico o per trasferimento o per comando, e che continui a prestare servizio alla data di entrata in vigore della presente legge, è con effetto dalla stessa data direttamente inquadrato nella pianta organica dell’unità sanitaria locale presso la quale presta al momento servizio con la posizione funzionale ricoperta, previa deliberazione del comitato di gestione dell’anzidetta unità sanitaria locale adottata a seguito di domanda da parte dell’interessato da presentarsi entro trenta giorni dalla predetta data. La regolamentazione suddetta parla di posizione funzionale e non di profilo funzionale, per cui l’inquadramento poteva avvenire solo in via orizzontale (posizione funzionale) e non anche in via verticale (profilo professionale).

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3488

DIPENDENTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN GENERE '' COSTITUZIONE DEL RAPPORTO ''

 

Non ricorrono le condizioni per riconoscere un rapporto di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione allorché non v’è né l’esclusività delle prestazioni, né l’inserimento stabile nell’organizzazione dell’ente, né la subordinazione gerarchica, né una retribuzione assimilabile a quella del dipendente pubblico.

L'insediamento nelle strutture pubbliche, la predeterminazione di orari di lavoro, il controllo sulle assenze sono aspetti non risolutivi per l' affermazione di un rapporto di lavoro dipendente, trattandosi di elementi caratteristici di prestazioni libero professionali in favore di soggetti pubblici (Sez. V, 1° aprile 1993 , n. 456).

La costituzione di un rapporto di impiego di ruolo o non di ruolo deve avvenire, a pena di nullità del rapporto, con l’osservanza della procedura concorsuale (art.5 l.r. n.42/81; art. 5 D.L. 10 novembre 1978 n. 702, convertito dalla L. 8 gennaio 1979 n. 3).

Sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3464                            ''ACCESSO AI DOCUMENTI''

 

L'accesso previsto dall’art. 10, comma 2, del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 "a tutti gli atti dell'amministrazione comunale e provinciale", in quanto "pubblici", se da un lato rafforza il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa locale in capo al cittadino-elettore - anche in funzione dell'effettività della disposizione dell'art. 9 comma 1 - dall'altro non è intesa a radicare in capo a quest'ultimo un interesse generico alla legittimità dell'azione amministrativa attraverso un controllo generalizzato dell'azione stessa e l'esperimento dei conseguenti rimedi giurisdizionali. La stretta correlazione tra l'interesse in capo al soggetto agente e l'esercizio dello strumento di tutela (anche nella sua proiezione processualistica) costituisce principio cardine del procedimento amministrativo, che non trova deroga - in assenza di espressa previsione normativa al riguardo - neppure nella "speciale" disciplina introdotta dall'art. 10 cit., in quanto immanente nell'ordinamento. Sì che non rileva il generico interesse a che l'Amministrazione operi in assoluta osservanza dei canoni normativi - interesse, questo, la cui tutela su azione del privato è ex se sconosciuta nel nostro ordinamento, in linea generale - dovendo sempre essere configurabile, invece, una concreta posizione di vantaggio in capo al richiedente in dipendenza dell'esercizio del rimedio procedimentale (o processuale), e ciò ai fini della sua stessa ammissibilità.

La tutela accordata dall'ordinamento ai portatori della giusta esigenza di trasparenza dell'attività amministrativa non può risolversi - in ragione della correlata esigenza di buon andamento dell'apparato organizzativo dei pubblici uffici - in uno strumento di ingiustificato "rallentamento" dell'attività medesima: in tale quadro si innesta l'onere di precisa individuazione degli atti e dei documenti nonché della procedura amministrativa connessa con la specificità dell'interesse fatto valere dal richiedente, non essendo ipotizzabile l'imposizione all'Amministrazione di un'attività di ricerca o di messa a disposizione del richiedente di mezzi e strutture per l'individuazione di eventuali elementi in ipotesi utili al richiedente stesso.

Sez. IV, 28 giugno 2005, n. 3441

DIPENDENTI CIVILI DELLO STATO '' LESIONI ED INFERMITA’ ''

 

La liquidazione dell’equo indennizzo, una volta annullato in sede giurisdizionale il diniego dell’Amministrazione, costituisce attività dovuta essendo l’Amministrazione medesima tenuta a riprendere in esame la domanda originariamente proposta e provvedere su di essa, senza dover far precedere la liquidazione dall’invito a presentare una nuova domanda (Sez.VI, n. 1035/1992).

Il provvedimento di riconoscimento e liquidazione dell’equo indennizzo emanato a seguito di un primo rigetto da parte dell’Amministrazione annullato dal giudice amministrativo, è attività esecutiva di un giudicato del giudice amministrativo, al quale occorre riportare gli effetti dell’attività di riesame svolta ora per allora. E’ legittima, quindi, la corresponsione di interessi sulle somme liquidate, con decorrenza dalla data della sentenza di cui è stata chiesta l’integrale esecuzione, come momento a decorrere dal quale l’attività dell’Amministrazione è divenuta atto dovuto e, pertanto, come momento dal quale il ritardo nella corresponsione delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo è imputabile alla P.A.

Inserito il Sabato, 12 novembre