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Sentenza Corte di Cassazione - Retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica ''Escluso il diritto al compenso aggiuntivo''

Con sentenza n. 659 del 15 gennaio 2016, la Corte di Cassazione ha precisato che in caso di coincidenza di festività civili nazionali con la giornata settimanale di domenica è escluso il riconoscimento del compenso aggiuntivo ai dipendenti. Nel caso di specie con ricorso al giudice del lavoro del Tribunale di Roma, il MIUR (Ministero dell'Istruzione Università e Ricerca) presentava opposizione al decreto ingiuntivo con cui lo stesso tribunale gli aveva imposto di pagare, in favore della sua dipendente, importi a titolo di compenso aggiuntivo per tre festività di cui alla legge n. 260/1949 - come modificata dalla legge n. 90/1954 -, specificatamente riferite alle festività civili del 2 giugno 2002, del 25 aprile 2004 e del 10 maggio 2005, coincidenti con la domenica.

 

 

 

Di seguito la Sentenza della Corte di Cassazionen. 659 del 15 gennaio 2016,  tratta da tcnotiziario.it

1. - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:

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Valorizzava la Corte territoriale lo ius superveniens, costituito dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266, che, all'art. 1, comma 224, ha stabilito, che: "Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall'articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge".

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la dipendente con un motivo di impugnazione.

Il Ministero si è costituito al solo fine di partecipare alla discussione orale.

Con l'unico articolato motivo di ricorso viene denunciata la violazione e l'errata applicazione della legge n. 124 del 1999 nonché di ogni altra norma in materia, la violazione dell'obbligo internazionale derivante all'Italia dall'art. 6/1 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, posta questione di costituzionalità della legge n. 266 del 2005, art. 1, comma 224, denunciata la violazione dei principi generali del vigente diritto comunitario e formulata richiesta di quesito interpretativo alla Corte di Giustizia, CE, ex art. 234 del Trattato CE.

I rilievi, da trattarsi congiuntamente, in ragione della intrinseca connessione, sono manifestamente infondati.

La Corte territoriale ha correttamente applicato lo ius superveniens costituito dall'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, norma che, laddove dispone che l'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, come successivamente modificato, è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell'art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha escluso, con portata retroattiva (e dunque non con effetti solo per il futuro), il riconoscimento del diritto dei dipendenti ad un compenso aggiuntivo, in caso di coincidenza con la festività della domenica. In tali termini questa Corte si è già più volte pronunciata. Si vedano, infatti, Cass. 5 aprile 2011, n. 7740, Cass. 25 febbraio 2011, n. 4661, Cass. 27 ottobre 2009, n. 22653, Cass. 17 giugno 2009, n. 14048, Cass. 22 febbraio 2008, n. 4667 con le quali si è evidenziato che la suddetta disposizione, mirando a risolvere dubbi interpretativi sull'ambito dell'inefficacia determinata dalla stipulazione della seconda tornata di contratti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, è qualificabile come norma di interpretazione autentica, siccome fatto palese, del resto, dalla specifica disposizione di salvezza dei giudicati formatisi anteriormente alla sua entrata in vigore. E' stato anche rimarcato, con l'espresso richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale n. 146 del 16 maggio 2008 (così Cass. n. 7740/2011, Cass. n. 4661/2001, Cass. n. 14048/2009 citate), come i dubbi di legittimità costituzionale, prospettati sotto il profilo della pretesa violazione del principio di uguaglianza, sono privi di fondamento. Sulla questione, a seguito di ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 1040 del 20 gennaio 2014, resa in un giudizio nel quale, come nel presente, si sosteneva che l'efficacia retroattiva dell'art. 1, comma 224, della legge n. 266/2005 non appariva giustificata, sul piano costituzionale, da una finalità realmente interpretativa della disposizione stessa, la quale attribuisce alla norma interpretata (il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 1, secondo periodo) non già uno dei significati possibili bensì un significato del tutto nuovo e si poneva, altresì, il problema che la detta retroattività avrebbe violato il divieto di ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, influendo sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (art. 117 Cost., comma 1 e 6 CEDU), ledendo l'autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) -, è tornata la Corte costituzionale.

Nella recente decisione n. 150 del 14 luglio 2015, il Giudice delle leggi ha definitivamente fugato ogni dubbio di costituzionalità e di contrasto con il giusto ed equo processo e con i connessi principi della "parità delle armi" e della certezza del diritto (art. 6 CEDU) affermando che: "l'intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza > (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell'affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall'inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico.

Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010)".

Si propone, pertanto, il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell'art. 375, n. 5, cod. proc. civ.>>.

2. - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria con la quale la ricorrente, confermando che la vicenda in questione, alla luce del recente intervento della Corte costituzionale, può dirsi chiusa a livello nazionale, si limita ad ipotizzare la possibilità di adire la CEDU per l'accertamento del diritto azionato.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ., per la definizione camerale del processo.

3. - Conseguentemente, il ricorso va rigettato.

4. - Nulla va disposto per le spese processuali non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

5. - La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente in suscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; nulla per le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma della comma 1 bis dello stesso art. 13.

 
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